Un’urgenza per aziende e lavoratori
La salute mentale nel contesto lavorativo è emersa come una delle sfide centrali del 2025. Non si tratta più di un tema personale da relegare al tempo libero: oggi stress, ansia e benessere psicologico sono fattori determinanti anche per la strategia aziendale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stima che ogni anno nel mondo si perdano 12 miliardi di giornate lavorative a causa di depressione e ansia, con un costo di circa 1.000 miliardi di dollari di produttività persa . In altre parole, il “non detto” della salute mentale pesa sui bilanci tanto quanto un investimento infrastrutturale globale. Anche in Italia il fenomeno non è trascurabile: un report OCSE del 2025 calcola che la cattiva salute mentale costi al Paese circa il 3,5% del PIL annuo tra spese sanitarie, assenteismo e calo di produttività . Di fronte a questi numeri, le imprese non possono più permettersi di ignorare il benessere psicologico dei propri dipendenti.
A rendere il tema ancora più pressante è il cambio di prospettiva seguito alla pandemia. Problemi una volta taciuti – burnout, attacchi d’ansia, cali motivazionali – sono ora riconosciuti e discussi apertamente. Secondo un’indagine di SHRM del 2024, il 35% dei lavoratori dichiara che il proprio lavoro ha un effetto negativo sulla salute mentale, e oltre la metà si sente pressionato a anteporre il benessere dell’organizzazione al proprio . In un altro sondaggio, 3 lavoratori su 4 hanno riferito di aver affrontato almeno una sfida di salute mentale (ansia, depressione, lutti o persino ideazioni suicide) nell’ultimo periodo . Questi dati mostrano chiaramente che il fenomeno è diffuso e trasversale: riguarda impiegati e manager, settori manuali e digitali, giovani neoassunti e professionisti senior. Le persone portano “tutto sé stesse” al lavoro, fragilità incluse, e si aspettano che le aziende facciano la loro parte per creare ambienti sani e di supporto.
Il costo nascosto di stress, ansia, disaffezione e burnout
I problemi di salute mentale non fanno rumore, ma provocano danni enormi, spesso invisibili nei conti economici di breve periodo. Stress cronico, ansia non gestita, disaffezione verso il lavoro (il cosiddetto disengagement) e burnout finiscono per erodere lentamente produttività e clima aziendale, generando costi ingenti. Un dato Gallup è emblematico: la bassa motivazione e partecipazione dei dipendenti costa all’economia globale 8.800 miliardi di dollari l’anno, pari a circa il 9% del PIL mondiale . Questo “costo del disengagement” include cali di produttività, errori, opportunità mancate e innovazione frenata da team che lavorano “col pilota automatico”. A livello individuale, il 44% dei lavoratori nel mondo riferisce di vivere molto stress ogni giorno, un livello record raggiunto per il secondo anno consecutivo . È un circolo vizioso: lo stress prolungato porta al burnout, il quale a sua volta genera assenteismo, errori sul lavoro e ulteriore calo di motivazione nel gruppo.
Anche il burnout – letteralmente bruciarsi, esaurirsi – ha un impatto economico misurabile. Oltre metà dei dipendenti (57%) dichiara di trovarsi in uno stato almeno moderato di burnout , caratterizzato da esaurimento emotivo e distacco mentale dal lavoro. Ciò si traduce in assenze per malattia più frequenti e lunghe: le assenze per motivi legati alla salute mentale sono aumentate del 33% nel 2023 rispetto all’anno precedente . Dal 2017, il salto è stato addirittura del +300% , segno di un’emergenza silenziosa che è esplosa negli ultimi anni. Secondo i dati di un grande provider di servizi di supporto psicologico, quasi 7 assenze su 10 per motivi di salute mentale nel 2023 sono state fatte da donne, soprattutto millennial e Gen X – a indicare che il carico di stress colpisce in modo particolare alcune fasce della forza lavoro (per esempio, chi affronta contemporaneamente lavoro e cura familiare).
Non tutti gli effetti si vedono subito. Oltre all’assenteismo, c’è il fenomeno del presenteismo: persone presenti fisicamente al lavoro ma mentalmente esaurite, poco concentrate e quindi poco produttive. Studi aziendali mostrano che investire in programmi di supporto psicologico può ridurre sia l’assenteismo sia il presenteismo, recuperando ore di lavoro effettivo . Infine, un clima lavorativo negativo e “tossico” in termini di benessere psicologico può danneggiare seriamente la reputazione aziendale. Nell’era di Glassdoor e dei social network, le testimonianze di dipendenti esausti o non supportati fanno presto il giro del mondo, compromettendo l’attrattività dell’azienda verso nuovi talenti. Insomma, ignorare stress e malessere significa pagare un “costo occulto” altissimo, sia in termini finanziari che di capitale umano.
Salute mentale, retention e performance: un legame diretto
Un ambiente di lavoro mentalmente sano non è solo etica: è strategia. Benessere e performance vanno a braccetto. L’OMS sottolinea che un ambiente di lavoro sicuro e sano migliora retention, performance e produttività del personale . Dipendenti sereni, sostenuti e valorizzati sono più engaged (coinvolti attivamente), commettono meno errori, costruiscono rapporti più positivi con colleghi e clienti. Al contrario, una cultura lavorativa che ignora la salute mentale porta a turnover elevato, scarsa fiducia e calo della qualità del lavoro.
I dati confermano questo legame. Gallup rileva che nel 2024 l’engagement globale (cioè la quota di lavoratori realmente coinvolti e motivati) è sceso al 21% – il primo calo in anni – e che i manager hanno subito il calo maggiore. I manager disengaged sono un problema nel problema: ben 7 team su 10 riflettono il livello di coinvolgimento del proprio responsabile . Quando manca una leadership motivata e attenta, è più probabile che i collaboratori “si spengano” a loro volta, alimentando il ciclo della bassa performance. Non a caso, Gallup stima che se si riuscisse a portare tutti i lavoratori a un livello di pieno coinvolgimento, si aggiungerebbero 9.600 miliardi di dollari all’economia globale, un potenziale +9% sul PIL mondiale . In sintesi: investire nelle persone rende – in produttività, innovazione e risultati di business.
C’è poi un forte legame con la retention (la capacità di trattenere i talenti in azienda). Dipendenti esausti o insoddisfatti se ne vanno, spesso appena si presenta un’alternativa migliore. Secondo un rapporto Gallup, oltre metà dei lavoratori nel mondo (51%) nel 2022 cercava attivamente un altro impiego o era aperta a nuove offerte . Alla domanda su cosa cercano nel prossimo lavoro, molti citano sì stipendi più alti, ma anche maggiore benessere e opportunità di crescita . Un sondaggio internazionale del 2025 ha rivelato che ben 70% dei lavoratori sceglierebbe un lavoro con solidi benefit di salute mentale rispetto a uno con salario più alto ma senza supporto . Questo indica che per le persone il benessere vale quanto (e talvolta più) di una retribuzione generosa. D’altra parte, quando l’azienda offre reali sostegni, i dipendenti sono più propensi a restare: ad esempio, il 91% di chi ha accesso a supporto mentale sul lavoro si dichiara soddisfatto del proprio impiego (contro il 76% di chi non ha questo supporto) . La cura della salute mentale diventa dunque un vantaggio competitivo sul mercato del lavoro, migliorando la reputazione dell’azienda come datore attento alle persone.
Assenteismo, engagement, abbandoni: i numeri chiave
Per comprendere la portata del fenomeno, ecco alcuni indicatori recenti sulla salute mentale nelle aziende (fonte: OMS, Gallup, SHRM e ricerche internazionali 2024–2025):
-
Assenteismo per motivi psicologici: in forte crescita. Nel 2023 le assenze dal lavoro per problemi di salute mentale sono aumentate del +33% rispetto al 2022 . Dal 2017, il dato è quadruplicato (+300%) . Segnale che sempre più lavoratori si prendono congedi o malattie per gestire stress, ansia e burnout, anziché “stringere i denti” come avveniva in passato.
-
Stress e burnout diffusi: il 57% dei dipendenti dichiara livelli da moderati ad alti di burnout , manifestando sintomi di esaurimento emotivo e distacco dal lavoro. Globalmente, 4 lavoratori su 10 vivono stress intenso quotidiano , un dato che rimane ai massimi storici dopo la pandemia. Lo stress lavoro-correlato è riconosciuto dalle aziende come una delle principali criticità: il 68% dei datori di lavoro considera lo stress da lavoro un problema concreto, e il 67% ritiene preoccupante l’impatto di depressione e ansia sui dipendenti .
-
Disengagement e disaffezione: nonostante una lieve crescita dell’engagement post-pandemia, la maggioranza dei lavoratori rimane “spenta”. Quasi 6 su 10 a livello mondiale rientrano nel fenomeno del quiet quitting (il minimo indispensabile, senza coinvolgimento attivo) . Quando a questi si sommano gli actively disengaged (apertamente scontenti), il costo in produttività persa raggiunge gli 8,8 trilioni di dollari annui . In parallelo, solo il 21% della forza lavoro globale si definisce davvero ingaggiato nel proprio lavoro . Il dato è in calo e segnala quanto sia difficile oggi tenere alto il morale e la motivazione nei team.
-
Turnover e dimissioni volontarie: cresce il numero di persone pronte a lasciare un posto di lavoro per motivi legati al benessere. Una ricerca SHRM evidenzia che 1 lavoratore su 5 (22%) ha lasciato un impiego senza averne un altro pronto pur di proteggere la propria salute mentale . Inoltre, un terzo ha cambiato radicalmente carriera o accettato stipendi più bassi per ritrovare un equilibrio . Questi dati americani riflettono un trend globale: la cosiddetta “Grande Dimissione” post-2021 è stata alimentata anche dal rifiuto di ambienti tossici e dall’esigenza di migliorare la propria qualità di vita. Oggi le persone votano col proprio CV, premiando le aziende che offrono un clima sano.
-
Manager e benessere: la salute mentale non è solo un tema “da dipendenti”, ma riguarda in pieno anche i leader. Il 40% dei manager ha visto peggiorare il proprio benessere mentale dopo essere entrato in un ruolo di leadership . E un manager su tre dichiara che “non ne vale la pena” – lo stress del ruolo supera le soddisfazioni . Questo è preoccupante perché i manager influenzano direttamente la salute dei loro team: se il capo è sopraffatto, difficilmente potrà essere di supporto agli altri. Nel 2024 l’engagement dei manager a livello globale è sceso al 27% , trascinando con sé quello dei collaboratori. Formare e sostenere i manager sul fronte del benessere diventa dunque cruciale per invertire la rotta.
In sintesi, i numeri dipingono un quadro chiaro: assenteismo, disaffezione e turnover sono facce diverse dello stesso problema. Un problema che ha un nome preciso – salute mentale sul lavoro – e che le aziende sono chiamate ad affrontare con urgenza, pena perdere talenti, competitività e credibilità.
Promuovere la salute mentale in azienda: buone pratiche e soluzioni
Di fronte a questa sfida, cosa possono fare concretamente le organizzazioni? La buona notizia è che esistono numerose strategie, già sperimentate con successo, per migliorare il benessere mentale nei luoghi di lavoro. Ecco alcune buone pratiche che aziende di ogni settore e dimensione possono adottare:
-
Leadership empatica e attenta: I leader svolgono un ruolo chiave nel creare un clima psicologicamente sicuro. La leadership empatica significa saper ascoltare senza pregiudizi, mostrare comprensione per le difficoltà dei collaboratori e guidare con l’esempio in tema di equilibrio lavoro-vita privata. Un manager che normalizza le discussioni sul benessere, che chiede “come stai davvero?” e offre flessibilità nei momenti difficili, costruisce fiducia e lealtà. Al contrario, stili autoritari o indifferenti alimentano paura e silenzi. Investire sulla formazione dei capi (es. con coaching sulla comunicazione empatica, intelligenza emotiva, riconoscimento dei segnali di stress) può fare la differenza. Studi confermano che un management più empatico porta team più coesi, creativi e produttivi . In pratica, un buon capo “costa meno” di mille interventi correttivi a valle, perché previene il malessere anziché reagire ad esso.
-
Processi e carichi di lavoro sostenibili: Molto stress lavorativo nasce da sovraccarico, urgenze continue e mancanza di controllo sul proprio tempo. Per questo, aziende all’avanguardia stanno ripensando i processi con un’ottica di sostenibilità umana. Significa ridefinire priorità realistiche, evitare la cultura del “fire-fighting” perenne, e dotarsi di organici adeguati (non “fare sempre di più con meno”). Orari di lavoro flessibili e right to disconnect (diritto a non essere reperibili fuori orario) aiutano i dipendenti a ricaricarsi e conciliare le esigenze personali. Alcune imprese stanno sperimentando la settimana lavorativa di 4 giorni senza riduzione di salario, riportando cali significativi di stress e aumento della produttività. Anche promuovere pause regolari, ferie realmente usufruite e una gestione intelligente dei picchi di lavoro contribuisce a prevenire il burnout. In sintesi, un’organizzazione “mentalmente sostenibile” pianifica il lavoro tenendo conto dei limiti umani – e ne ottiene in cambio dipendenti più leali ed energici.
-
Ascolto e dialogo aperto: Rompere il tabù sulla salute mentale è fondamentale. Le aziende possono avviare campagne interne di sensibilizzazione, giornate dedicate al benessere o testimonianze di leader che parlano apertamente di sfide personali, così da ridurre lo stigma. Creare canali di ascolto confidenziale (come sportelli di consulenza, chat anonime con HR, sondaggi periodici sul clima) permette di intercettare problemi in fase iniziale. Importante anche formare i team a pratiche di peer support: colleghi che sanno sostenersi a vicenda, riconoscendo segnali di disagio e incoraggiando chi ne ha bisogno a chiedere aiuto. Un ambiente dove le persone si sentono libere di esprimere preoccupazioni senza paura di ripercussioni è un ambiente più sicuro. Questo concetto è noto come “sicurezza psicologica”: la fiducia reciproca che consente di parlare di problemi, proporre idee o anche commettere errori senza timore di essere giudicati. Ricerche di Google (Project Aristotle) e Harvard hanno identificato la sicurezza psicologica come fattore numero uno dei team ad alte prestazioni. Crearla richiede impegno intenzionale, ma ripaga con gruppi di lavoro più innovativi e adattabili.
-
Supporto psicologico accessibile: Se un dipendente sta male, deve sapere di non essere solo. Sempre più aziende offrono programmi di Employee Assistance Program (EAP), ossia consulenze psicologiche gratuite e anonime per i dipendenti e spesso anche per le loro famiglie. Questo servizio consente di affrontare in modo professionale stress, problemi personali o conflitti di lavoro prima che diventino travolgenti. Oltre agli EAP, molte realtà sottoscrivono polizze sanitarie integrative che coprono sedute di psicoterapia o organizzano webinar e workshop con psicologi su gestione dello stress, resilienza e mindfulness. Dopo la pandemia, il 94% delle grandi imprese (500+ dipendenti) ha potenziato i propri servizi di supporto mentale – segno che la domanda c’è ed è crescente . L’azienda può anche stringere convenzioni con centri di counseling locali o piattaforme di telepsicologia, per ampliare l’accesso alle cure. L’importante è comunicare chiaramente a tutti i livelli che chiedere aiuto è un segno di forza, non di debolezza, e che l’organizzazione è pronta a tendere la mano.
-
Formazione e prevenzione: Un ulteriore tassello è inserire la salute mentale nei programmi di formazione aziendale continua. Ad esempio, erogare corsi su stress management, tecniche di time management, promozione di stili di vita sani (esercizio fisico, sonno, alimentazione) che supportino la resilienza personale. Formare Mental Health First Aiders (figure interne addestrate a prestare un primo aiuto psicologico, analogamente al pronto soccorso fisico) può aiutare a riconoscere tempestivamente segnali di allarme tra colleghi. Sul fronte della prevenzione, alcune imprese adottano survey periodiche sul benessere o KPI di people analytics (come il Net Mental Health Score) per monitorare il polso della situazione e intervenire proattivamente su reparti o team in difficoltà. La chiave è passare da un approccio reattivo (“aspettiamo che scoppi un problema”) a uno proattivo di cura continua del clima organizzativo.
Implementare queste soluzioni non è solo un atto di responsabilità sociale, ma porta benefici misurabili. Aziende che investono in benessere mentale registrano cali di assenteismo, maggiore engagement e prestazioni migliori nel medio periodo . D’altro canto, creare una cultura di ascolto ed equilibrio funge anche da calamita per nuovi talenti in un mercato del lavoro dove le persone valutano attentamente l’ambiente lavorativo, non solo la paga. Come afferma Johnny Taylor, CEO di SHRM, i risultati di ricerca odierni “sottolineano il ruolo che la salute mentale gioca nelle decisioni dei dipendenti di lasciare il loro lavoro” e quindi invitano le organizzazioni a “considerare la salute mentale dei dipendenti nello sviluppo di strategie di retention e engagement” . In breve, le soluzioni esistono e sono già alla portata: occorre volontà da parte delle imprese per integrarle nei modelli di business quotidiani.
Conclusioni: il ruolo delle imprese nella tutela della salute mentale
La salute mentale sul lavoro non è un trend passeggero né un “benefit” opzionale da sfoggiare nel mese di ottobre. È un elemento costitutivo della sostenibilità aziendale e del successo nel lungo termine. In un mondo post-pandemico segnato da incertezza, cambiamenti tecnologici rapidi e carichi emotivi crescenti, le imprese diventano a tutti gli effetti attori di prevenzione e cura. Il luogo di lavoro può aggravare i problemi – se domina la cultura della pressione e dell’isolamento – oppure può diventare parte della soluzione, offrendo comunità, senso e supporto.
Come sottolinea l’OMS, “Investire nella salute mentale significa investire nelle persone, nelle comunità e nelle economie. Un investimento che nessun Paese può permettersi di trascurare” . Parafrasando questa affermazione per il mondo del lavoro: investire nel benessere psicologico in azienda significa investire nei propri collaboratori, nel clima interno e quindi nella prosperità del business. È un investimento che nessuna organizzazione può più permettersi di ignorare.
Le aziende hanno dunque la responsabilità – e l’opportunità – di farsi promotrici di un cambio di paradigma. Ciò implica integrare la salute mentale nelle politiche HR, nei piani di welfare e persino nei valori dichiarati dall’impresa. Significa misurare i risultati non solo in termini di fatturato, ma anche di soddisfazione e salute organizzativa. I leader aziendali devono diventare sponsor attivi di una cultura in cui prendersi cura di sé è parte integrante dell’eccellenza professionale, e non un segno di debolezza.
In conclusione, la salute mentale nel lavoro (salute mentale lavoro 2025) è una sfida che definirà i migliori luoghi di lavoro dei prossimi anni. Chi saprà affrontarla con serietà e risorse adeguate vedrà non solo dipendenti più sani e felici, ma anche team più innovativi, clienti più soddisfatti e una reputazione solida presso le comunità. In altre parole, creare ambienti di lavoro mentalmente sani conviene a tutti: ai lavoratori, alle aziende e alla società nel suo insieme. Il 2025 sarà l’anno in cui questa consapevolezza diventerà – si spera – azione concreta su larga scala. Le imprese sono chiamate a fare la loro parte, perché dal loro impegno dipende il benessere futuro di milioni di persone e, di conseguenza, il successo stesso dei modelli di business in un’epoca di profondi cambiamenti.